Montignano
Il castello, che sorge poco distante da Santa Maria in Pantano, in posizione collinare, apparteneva al feudo degli Arnolfi, nei secoli X e XI, viene ricordato in un documento dell’abbazia di Farfa del 1115 co [...]
Villa San Faustino
Il castello di Villa San Faustino fece parte anch’esso, nei secoli X e XI delle terre Arnolfe (citato in documenti dell’abbazia di Farfa del 1115 e 1118). Il castello, connesso con l’importante pieve di S [...]
Colpetrazzo
Castello costruito tra la fine del 1300 ed i primi anni del 1400, conserva ancora intatta la sua struttura medioevale. Di notevole interesse la porta d’ingresso, oltre la quale si trova la piccola chiesa di S [...]
Mezzanelli
Il castello di Mezzanelli , che sorge in posizione strategica, ha seguito le sorti dei vari dominatori che ne hanno gestito la vita politica; un tempo parte del feudo degli Arnolfi, il castello è stato citato [...]
Castel Rinaldi
Castel Rinaldi: Borgo medioevale, costruito, secondo la tradizione, nel 1160 da un tal "Rinaldo duca di Calabria", Castel Rinaldi fece parte anche del feudo dei conti Arnolfi. [...]
Viepri
Il borgo fortificato di Viepri è avvolto dalle alte colline circostanti che, chiamate per secoli ad assicurarne la difesa, sembrano ancora oggi continuare a nasconderlo. Costruito dopo il 1380 sulle rovine del [...]
I Monti Martani
I Monti Martani :La catena dei monti Martani si trova al centro dell'Umbria e si estende, con un andamento regolare da sud a nord, per circa 45 chilometri, tra le province di T [...]
Castelvecchio
Il borgo si presenta oggi con una veste molto diversa da come doveva apparire nel Medioevo: rimangono, oggi, solo alcuni ruderi nascosti dalla vegetazione spontanea che ha ripreso possesso del rilievo sul quale [...]

Andar per Castelli….tra storia e leggenda (2)

9,2 Km – Itinerario fruibile in auto e in bici

Il percorso inizia con la visita del centro storico di Massa Martana, (Itinerario n° 3 : Un itinerario del silenzio nell’area Martana), da qui,  costeggiando un tratto della vecchia Flaminia, dove sorge la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, si raggiunge la Chiesa di Santa Maria in Pantano, situata lungo il tracciato della Via Flaminia, nel luogo dell’antico Vicus Martis Tudertium, (del quale sono emerse numerose testimonianze durante recenti scavi archeologici condotti da un’equipe statunitense, in corso dal 2008), divenuta poifulcro religioso nel periodo medioevale, si presenta oggi nella sua veste romanica. Questo itinerario percorre la fascia pedemontana occidentale dei Monti Martani, caratterizzata da vegetazione tipica della vera macchia mediterranea, che raggiunge in questa zona il suo areale più interno. In questo ambiente naturalistico di pregio, si trovano alcuni borghi medioevali fortificati, confine tra Le Terre Arnolfe (Mezzanelli) e l’area Tuderte.  Dall’Abbazia di Santa Maria in Pantano, si prosegue in direzione sud la statale fino a raggiungere il bivio per Colpetrazzo; da qui il percorso, molto suggestivo, permette di raggiungere Torre Lorenzetta, con la pieve romanica di San Sebastiano; Colpetrazzo, che mantiene la sua conformazione urbanistica medioevale, e a dominio di una delle porte del borgo, l’aquila tuderte, emblema del Comune di Todi. Si raggiunge, infine Mezzanelli, situato in posizione strategica, come dimostrano i ruderi della Rocca medioevale, nella parte più alta del colle, lungo le pendici di Monte il Cerchio. Quest’ultimo, Sito di Importanza Comunitaria, denominato “Monte il Cerchio”, è caratterizzato da una vegetazione tipica della Macchia Mediterranea e di bosco ceduo (Leccio, Bosso, Corbezzolo, Orniello, Carpino nero, Roverella, Cerro e Ginepro).

 

RAGGIUNGI L'ITINERARIO

 

APPROFONDIMENTI Itinerario n 2

 

Santa Maria delle Grazie

La chiesa di Santa Maria delle Grazie sorge ancora una volta in prossimità dell’antico tracciato della Via Flaminia. La struttura attuale, che risale alla fine del '400 fu realizzata, sfruttando un preesistente edificio come suggeriscono numerosi materiali architettonici del 1200, riutilizzati nella costruzione attuale.
La facciata attuale che si affaccia sull’antico tracciato della Via Flaminia, mostra una struttura rettangolare, in pietre di varie dimensioni, con un raffinato oculo ed un campanile a vela.
L'interno, ad una sola navata, presenta sull'altare la Madonna con il Bambino fra angeli, opera di un maestro anonimo chiamato Maestro dell'Incoronazione della prima metà del XV sec., nella tribuna, invece sono conservati interessanti affreschi di scuola umbra della prima meta del '500:  l'Adorazione dei Magi, l'Annunciazione, Cristo fra gli Apostoli, la Morte della Madonna, S. Francesco e altri Santi. Era conservata qui, inoltre, una preziosa statua lignea di Sant'Antonio Abate, risalente al 1484; la statua è stata restaurata e si trova oggi nella Chiesa di San Felice.

Curiosità: Il culto di S. Antonio Abate è molto diffuso in Umbria, soprattutto in zone a vocazione agricola, come l’area di Massa Martana. Secondo fonti agiografiche, Sant’Antonio, nacque a Coma in Egitto, intorno al 251, da ricchi agricoltori cristiani. E’ considerato un eremita tra i più rigorosi nella storia del Cristianesimo antico: malgrado appartenesse ad una famiglia piuttosto agiata, mostrò sin da giovane poco interesse per le lusinghe e per il lusso della vita mondana: alle feste ed ai banchetti infatti preferiva il lavoro e la meditazione e alla morte dei genitori distribuì tutte le sue sostanze ai poveri, si ritirò nel deserto e li cominciò la sua vita di penitente.
Compiuta la sua scelta di vivere come eremita, trascorse molti anni vivendo in un'antica tomba scavata nella roccia, lottando contro le tentazioni del demonio, che molto spesso gli appariva per mostrargli quello che avrebbe potuto fare se foste rimasto nel mondo. A volte il diavolo si mostrava sotto forma di bestia feroce - soprattutto di porco - allo scopo di spaventarlo, ma a queste provocazioni Antonio rispondeva con digiuni e penitenze di ogni genere, riuscendo sempre a trionfare. Ecco perché lo troviamo spesso raffigurato con un maialino. 
Malgrado conducesse una vita dura e piena di privazioni, Antonio fu molto longevo: la morte lo colse infatti all'età di 105 anni, il 17 Gennaio del 355, nel suo eremo sul monte Qolzoum.
I riti che si compiono ogni anno in occasione della festa di S. Antonio sono antichissimi e legati strettamente alla vita contadina e fanno di Antonio Abate un vero e proprio "santo" del popolo.
Egli è considerato il protettore contro le epidemie di certe malattie, sia dell'uomo, sia degli animali. E' stato invocato come protettore del bestiame e la sua effigie era collocata sulla porta delle stalle, molti esempi di questa pratica si trovano anche nella zona di Massa Martana.
Il Santo è invocato anche per scongiurare gli incendi, e non a caso il suo nome è legato ad una forma di herpes nota come "fuoco di Sant'Antonio" o "fuoco sacro".

Santa Maria in Pantano Secondo una leggenda locale, la chiesa è stata edificata, nel V secolo dal magister militum Severo sui ruderi di un edificio o di un tempio pagano della Civitas Martana. Il basamento della chiesa, infatti risale, probabilmente ad un edificio tardo imperiale, del quale sono visibili le murature laterali in opus reticulatum con parti di mattoni, nella fiancata destra della chiesa. Molto più probabilmente la chiesa fu edificata ad unica, grande aula absidata tra il VII e il VIII secolo, aggiungendo all'edificio romano la parte presbiteriale e absidale, leggermente sopraelevate e con le murature in opus spicatum. Di notevole interesse architettonico è l'abside, scandita esternamente da ampie arcate che richiamano motivi in uso nell’area veneta. Annesso alla chiesa fu poi costruito un monastero, gestito dai monaci benedettini che bonificarono e resero fertile la località, spesso inondata dal torrente Tribbio, come chiaramente indica il toponimo in pantano. Alcuni documenti attestano che la  chiesa era alle dipendenze del monastero di Farfa, quindi ebbe sicuramente un ruolo politico notevole nell’area martana. La facciata della chiesa non è allineata con la strada moderna, bensì con il vecchio tracciato della Via Flaminia che corre più a destra; è arricchita da un portale ad arco acuto, in conci alternati bianchi e rossi con cornice marmorea, ed un semplice rosone che ne abbellisce la semplice struttura rettangolare. L’interno, molto sobrio, diviso in 3 navate da poderose colonne e capitelli di vario tipo;  conserva ancora frammenti di affreschi medioevali di scuola locale. Si possono ammirare urne cinerarie, frammenti decorativi romani e numerose iscrizioni. Notevoli il grande capitello corinzio riutilizzato come sostegno dell'ultima arcata di destra; i frammenti dell'antico pavimento a mosaico e ad opus spicatum, ritrovati in recenti lavori di restauro e il grande cippo con l'iscrizione che ricorda i Vicani Vici Martis riutilizzato come base per l'altare maggiore. Tra gli affreschi, quasi tutti di scuola locale, si segnalano quello sull'altare della navata destra Madonna con il Bambino tra Santa Barbara e Sant'Antonio Abate del XV secolo, opera di Niccolò di Vannuccio; sulla parete posteriore un affresco con raffigurati Sant'Antonio Abate, San Pietro, San Fortunato e Sant'Onofrio del XIV secolo; al centro dell'abside Madonna con il Bambino (sec. XIV-XV), al quale furono aggiunti posteriormente San Felice e San Benedetto. Sulla sinistra una Crocifissione con San Severo e San Francesco (sec. XVII). Uscendo dalla chiesa, merita un veloce sguardo la torre quadrata con coronamento ad archetti medioevali del XIV secolo, che si innalza a dominio della valle.  Altra testimonianza dell’insediamento romano, è una cisterna, individuata nel 1997, nei sotterranei di un fabbricato rurale sito nei pressi di Santa Maria in Pantano.  Si tratta di un ambiente costituito da due cunicoli lunghi circa m. 15, larghi m. 2 e alti m.3, raccordati da un cunicolo trasversale più o meno delle stesse dimensioni.

Curiosità: se si osserva con attenzione il muro esterno dell'ex monastero, a sinistra della chiesa, si potrà notare, incastonata nel paramento murario e un po’ erosa dal tempo, un'urna funeraria romana, con un bassorilievo raffigurante il Sacrificio di Ifigenia, interessante iconografia diffusa all’epoca. Il mito racconta che i Greci erano radunati in Aulide da più di tre mesi, e per il persistere della bonaccia non si poteva salpare. Chiamarono l’indovino Calcante perchè gli dicesse che cosa si poteva fare. L’indovino gli ricordò che alcuni anni prima aveva offeso gravemente la dea Artemide: avendo trafitto con un bel colpo un cervo, si era vantato d'essere un cacciatore più bravo della dea stessa della caccia. E ora Artemide pretendeva, se si voleva far partire la flotta, che Agamennone le sacrificasse sull'altare la propria figlia Ifigenia. Bisognò far venire da Micene la bella Ifigenia: mentre il sacerdote immergeva già il coltello nel petto di ifigenia, l'altare venne circondato da una densa nebbia, e, quando questa si ritirò, invece del corpo insanguinato della giovinetta, sull’altare si trovo’ il corpo insanguinato di una cerbiatta. Artemide aveva avuto pietà dell'intrepida ragazza e l'aveva sostituita con la cerbiatta, portando via ifigenia viva in Tauride, dove il re del luogo, Toante, la fece sacerdotessa della dea che l'aveva salvata. Ed ecco che subito sorse da terra un venticello che andò a mano a mano crescendo, e la flotta greca potè finalmente togliere gli ormeggi, spiegare le vele e salpare per la Troade.  Da sinistra, nel bassorilievo, si scorge una figura maschile nuda che tira a sé una figura con l'himation sul capo (forse Agamennone), poi un albero stilizzato, un uomo che tiene per i capelli una figura più piccola che fugge (forse Ifigenia), un'ara con dei simboli e tre guerrieri con lancia.

Curiosità: Poco distante da qui, seguendo il tracciato dell’antica Via Flaminia, in direzione Massa Martana, sorge un grande monumento funerario d’epoca romana, del quale resta soltanto l’ossatura centrale in calcestruzzo, a causa dei ripetuti scavi clandestini. Al Mausoleo infatti è legata un’antica leggenda, secondo la quale al suo interno sarebbe nascosto un prezioso tesoro composto da una mucca con sette vitelli d’oro, la leggenda è conosciuta in varie località della zona e rende questo luogo ricco di mistero e fascino, motivo per il quale molte volte è stata oggetto di scavi rocamboleschi! Nei pressi della costruzione è stata recentemente rimessa in luce una seconda tomba a edicola, della quale resta l’intero basamento in grossi blocchi di travertino.   

 

Vicus Martis Tudertium Intorno alla chiesa di S.Maria in Pantano, realizzata nei secoli VII-VIII  sfruttando un preesistente edificio romano del quale se ne conservano notevoli parti, si colloca il Vicus Martis Tudertium, attestato da numerose epigrafi provenienti da questa località e da identificare con la Statio ad Martis (stazione di posta) sulla Flaminia, ricordata nell’Itinerario dei vasi di Vicarello (I sec.), nell’Itinerario Antonino (II sec.) e nella Tabula Peutingeriana (V sec.); testimonianze certe della sua importanza per tutto il periodo imperiale; il vicus sorgeva presso una diramazione che collegava il percorso alla Via Amerina e quindi a Todi, costituendo un avamposto e uno scalo di Tuder sulla Flaminia, a cui infatti si richiama nel nome. Nonostante i numerosi indizi e ritrovamenti (da ricordare inoltre resti di un grande edificio a pianta rettangolare, con murature in opera quasi reticolata, inglobate nelle strutture della chiesa), l’area non è stata mai oggetto di indagini scientifiche. Nell’anno 2008, su concessione del Ministero dei Beni Culturali e sotto il controllo della Soprintendenza Archeologica dell’Umbria nella persona del dott. Paolo Bruschetti, sono iniziate le prime indagini, condotte da un gruppo di studenti americani della Drew University di Madison, New Jersey, guidati dal professor John Muccigrosso e coadiuvati dall’équipe di archeologi dell’impresa Intrageo di Todi. Le operazioni di scavo, hanno permesso di portare in luce una serie di edifici con un invidiabile stato di conservazione dei muri perimetrali, che dimostrano l’esistenza del vicus, (impianto abitativo, spesso di modesta entità situato intorno a snodi fondamentali di comunicazione) con dimensioni che coprono un’area di circa sette ettari. 

Curiosità: Da ricordare che le stazioni lungo le vie romane erano di tre tipi: le civitas, la mansiones e le mutationes: in queste ultime erano gli iunctores jumentarii per il cambio dei cavalli, e proprio nel vico Martano resta traccia di una rara epigrafe che documenta l’esistenza di un collegium jumentarii, corporazione destinata a questo  importante servizio.

 

Le Terre Arnolfe Con il termine Terre Arnolfe si designa una suddivisione storica dell'Umbria, localizzata prevalentemente sulle colline e sui monti Martani, nell’area tra Montecastrilli, Acquasparta, Avigliano Umbro. L'antica capitale era costituita dal paese di Cesi; il nome deriva dai discendenti di Arnolfo che divennero vassalli della chiesa e feudatari di questo territorio, che prese quindi da loro il nome di Terre Arnolfe: queste terre infatti passarono dalla dominazione imperiale, sotto l’imperatore Enrico II, ultimo re di Germania, alla Chiesa. Papa Innocenzo III nel 1199, vi nominò anche il primo Rettore, il chierico Roberto Malvano, direttamente soggetto alla Sede Apostolica. Molti castelli del territorio martano, furono per un periodo sotto la giurisdizione delle Terre Arnolfe, per poi passare, in molti casi, sotto il dominio del ben più potente Comune di Todi.

 

 

 

Torre Lorenzetta Il borgo di Torre Lorenzetta, fu centro fortificato importante dell’area martana, alle dipendenze della parrocchia di Villa San Faustino sino al 1806, quando fu aggregato a quella di Colpetrazzo.  Anticamente era chiamato Poggio di S. Martino, e solo dal XV secolo prese il nome del proprietario Lorenzo di Giovanni Covitti, cambiando nome in Torre Lorenzetto. Il borgo, anche se in parte modificato dal punto di vista urbanistico, mantiene ancora alcuni edifici originali: poco fuori dal centro abitato è di notevole interesse la la piccola chiesa di San
Sebastiano, risalente al XIII secolo, con graziosa abside. Ad una sola navata, ospita qualche affresco quattrocentesco di scuola locale: un San Sebastiano tra l'Annunciata e la Madonna col Bambino  e l'Angelo Annunciante con San Fortunato. La chiesa ha subito gravi danni in seguito al terremoto del maggio del 1997, è stata però restaurata e mostra oggi l’antico fascino romanico.

 

 



 

 

Colpetrazzo  Castello costruito tra la fine del 1300 ed i primi anni del 1400, conserva ancora intatta la sua struttura medioevale. Di notevole interesse la porta d’ingresso, oltre la quale si trova la piccola chiesa di San Bernardino, antica parrocchiale del castello. Sopra la chiesa di San Bernardino merita una visita l'antica sala della confraternita del Santissimo Sacramento interamente decorata con un prezioso ciclo di affreschi votivi del XV e XVI secolo. Appena fuori dalle mura castellane si trova la chiesa parrocchiale, dedicata ai Santi Giuseppe e Bernardino, edificata nel secolo XVI in sostituzione della più antica chiesa di San. Bernardino, ritenuta piccola e collocata in posizione scomoda per l'accesso dei fedeli; che conserva alcune tele del 1600 attribuibili a pittori umbri dell’epoca.

 

 

 

Mezzanelli  Il castello di Mezzanelli , che sorge in posizione strategica, ha seguito le sorti dei vari dominatori che ne hanno gestito la vita politica; un tempo parte del feudo degli Arnolfi, il castello è stato citato in alcuni documenti del 1115 e 1118 con i quali i conti Ridolfo, Saraceno, Guillelmus, Hugolino, Tebaldo e Bulgarello cedevano parte di Mezzanelli e di altri loro possedimenti all’abate Beraldo di Farfa. Appartenne poi ai conti di Baschi quindi passò in parte sotto il dominio dei duchi Cesi. Situato in posizione ottinale fu più volte assalito da Spoleto e da Todi nel corso delle lotte tra guelfi e ghibellini. Subì distruzioni nel 1447 e nel 1451. Nel 1467 fu restaurato con il concorso di tutti i suoi abitanti che per l’occasione si autotassarono. Nel 1500 circa fu nuovamente assalito dalle truppe del papa Alessandro VI che distrussero la rocca. Quest’ultima, rimane ancora a dominio del borgo, e conserva una vistosa torre in pietra e le mura perimetrali; si può raggiungere con una piacevole passeggiata che sale dal borgo fino alla cima del colle, dove, immersi in un contesto paesaggistico molto suggestivo, appaiono i resti della struttura fortificata.  Proprio nella parte più alta del borgo, si trova la chiesa parrocchiale di San Filippo e San Giacomo che conserva un pregevole affresco raffigurante la Madonna del Rosario.

Curiosità: Tra il X e l’XI secolo si diffuse in Europa un fenomeno nuovo e destinato ad avere conseguenze di grande portata: l’incastellamento. L’assenza di un forte potere centrale e le nuove invasioni di Saraceni, Normanni, Ungari, gettarono il vecchio continente in una situazione di profonda insicurezza. I centri abitati furono costretti a ripensare la loro forma e organizzazione, dotandosi di strumenti in grado di rispondere all’impellente necessità di difesa. I borghi furono fortificati e si trasformarono in castelli, da intendersi pertanto non come fortezze militari ma come luoghi dove viveva stabilmente una comunità di persone. L’elemento identificativo di un castello, che generalmente sorgeva in posizione elevata, erano innanzitutto le mura, in grado di raggiungere spessori di 2-3 metri. Alte e possenti, erano concluse alla sommità da camminamenti e dalla caratteristica merlatura che consiste in un’alternanza di pieni e vuoti funzionale ad assicurare la protezione dei soldati dagli attacchi degli arcieri. Le merlature si distinguono in ghibelline o imperiali, quelle che presentano sommità a coda di rondine, e guelfe o papali, quelle a corpi quadrati. Le mura, che oltre ad assicurare la difesa militare generavano un sentimento d’identità e unità collettiva, si arricchivano di possenti torri, la principale delle quali era il cosiddetto mastio. Altro elemento fondamentale di un castello erano i fossati che, circondando le mura, mantenevano il nemico a distanza; potevano essere superati tramite ponti fissi in muratura o ponti levatoi in legno, sollevati in caso di pericolo. La gente viveva all’interno del castello e, nel caso di realtà di particolarmente popolose, la struttura divenne più complessa sino a contemplare chiese e piazze.

Il leccio: (Quercus ilex L.1753) detto anche elce, è una pianta della famiglia delle Fagaceae, diffusa nei paesi del bacino del Mediterraneo.

l leccio è generalmente un albero sempreverde con fusto raramente dritto, singolo o diviso alla base, di altezza fino a 20-25 metri. Può assumere aspetto cespuglioso qualora cresca in ambienti rupestri.

La corteccia è liscia e grigia da giovane, col tempo diventa dura e scura quasi nerastra, finemente screpolata in piccole placche persistenti di forma quasi quadrata.

I giovani rami dell'anno sono pubescenti e grigi, ma dopo poco tempo diventano glabri e grigio- verdastri.

Le gemme sono piccole, tomentose, arrotondate con poche perule.

Il Bosso: genere delle Buxaceae, arbusto cespuglioso sempreverde, ramoso compatto con fusto rami e legno giallastro, pianta moderatamente velenosa, foglie generalmente opposte picciolate o sessili, ellissoidali, coriacee di colore verde più o meno scuro e lucente, fiori monoici piccoli sessili, i frutti sono capsule coriacee con pochi semi oblunghi. Si trova spontaneo in luoghi rocciosi, aridi anche calcarei, in Europa, Asia e Africa.

Corbezzolo: Il corbezzolo (Arbutus unedo L., 1753), detto anche albatro, è un cespuglio o un piccolo albero appartenente alla famiglia delle Ericaceae. I frutti maturano nell'anno successivo rispetto alla fioritura che dà loro origine, in autunno. La pianta si trova quindi a ospitare contemporaneamente fiori e frutti maturi, cosa che la rende particolarmente ornamentale, per la presenza sull'albero di tre vivaci colori: il rosso dei frutti, il bianco dei fiori e il verde delle foglie.

Curiosità: Il poeta Giovanni Pascoli dedicò al corbezzolo una poesia. In essa si fa riferimento al passo dell'Eneide in cui Pallante, ucciso da Turno, era stato adagiato su rami di corbezzolo; il poeta vide nei colori di questa pianta una prefigurazione della bandiera italiana e considerò Pallante il primo martire della causa nazionale.

« O verde albero italico, il tuo maggio

è nella bruma: s'anche tutto muora,

tu il giovanile gonfalon selvaggio

spieghi alla bora »

 

Nel Risorgimento il corbezzolo, proprio a causa dei colori che assume in autunno, uguali a quelli della bandiera nazionale, era considerato un simbolo del tricolore.

 

L’Orniello: Fraxinus ornus è una pianta della famiglia delle Oleaceae, (conosciuto come Orniello o Orno e chiamato volgarmente anche frassino da manna o albero della manna nelle zone di produzione della manna) è un albero o arbusto di 4-8 metri di altezza, spesso ridotto a cespuglio,

Ha tronco eretto, leggermente tortuoso, con rami opposti ascendenti con corteccia liscia grigiastra, opaca, gemme rossicce tomentose; la chioma ampia è formata da foglie caduche opposte, imparipennate, con 5-9 segmenti (più spesso 7), di cui i laterali misurano 5-10 cm, si presentano ellittici o lanceolati, brevemente picciolati e larghi un terzo della loro lunghezza. Il segmento centrale, invece, si presenta largo circa la metà della sua lunghezza ed è obovato; la faccia superiore è di un bel colore verde, mentre quella inferiore è più chiara e pelosa lungo le nervature. Le infiorescenze sono a forma di pannocchie, generalmente apicali e ascellari; i fiori generalmente ermafroditi e profumati, con un breve pedicello, possiedono un calice campanulato con quattro lacinie lanceolate e diseguali di colore verde-giallognolo; la corolla ha petali bianchi leggermente sfumati di rosa, lineari, di 5-6 mm di lunghezza. Il frutto è una samara oblunga, cuneata alla base, ampiamente alata all'apice, lunga 2-3 cm e con un unico seme compresso di circa un centimetro.

Il carpino nero: (Ostrya carpinifolia) è un albero della famiglia delle Betulaceae. Il carpino nero ha tronco dritto e chioma raccolta e un po' allungata; le sue foglie sono a forma ovale, allungate e con il bordo seghettato; la nervatura principale è molto evidente. I frutti sono acheni a grappolo di colore bianco/verde. Il Carpino nero, in Italia, si trova nelle fasce medie delle colline in posizioni mediamente soleggiate. La formazione forestale nella quale il Carpino nero risulta nel suo optimum è l'Orno-ostrietum, vale a dire in associazione con l'Orniello (Fraxinus ornus). Tale associazione (di cui l'Orniello e il Carpino sono le specie rappresentative) è tipica della "vegetazione illirica", ben rappresentata in Italia. Ha esigenze idriche superiori a quelle della roverella, predilige i suoli calcarei e marnosi, teme il ristagno idrico, ma sopporta i terreni argillosi.

Il cerro: (Quercus cerris L.) è un albero a foglie caduche appartenente alla famiglia delle Fagaceae. È una specie che tende a sviluppare una chioma sino ad una altezza di 30-35 m. Il cerro ha foglie di colore verde scuro dal margine con profonde lobature. Il tronco ha corteccia grigio-brunastra con profonde solcature rossicce (il felloderma si rende infatti visibile). I frutti sono ghiande di circa 2,5 cm di lunghezza, caratteristiche per il "cappuccio" che le copre parzialmente ricoperto di una sortadi peluria riccioluta, di colore giallino chiaro. La propagazione avviene tramite ghiande la cui maturazione fisiologica si completa in due anni.

La Roverella: (Quercus pubescens, Willd. 1805), è la specie di quercia più diffusa in Italia, tanto che in molte località è chiamata semplicemente quercia. Appartiene alla famiglia delle Fagaceae. Resistente all'aridità, è facilmente riconoscibile d'inverno in quanto mantiene le foglie secche attaccate ai rami a differenza delle altre specie di querce. Il principale carattere diagnostico per identificare la specie è quello di sentire al tatto le foglie o le gemme: sono ricoperte da una fine peluria che si può facilmente apprezzare. Generalmente venivano lasciate delle piante di quercia lungo i confini di proprietà così che è possibile in certi casi ricostruire detti confini esaminando la presenza dei grossi esemplari della specie.

 

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